Passa ai contenuti principali

Pomeriggi d'inverno. Storie di periferia (seconda parte)

Ultimamente faccio un sogno ricorrente.

Io che cammino su una strada non asfaltata, nella luce bassa e non troppo decisa di un pomeriggio invernale.
La strada è lunga, bisogna svoltare più di una volta e ricordarsi bene gli incroci giusti.
Intorno ci sono campi e vigne, sotto quella luce hanno qualcosa di bello, di dolce, ma non mi soffermo tanto a guardarli.
Ho sempre un filo di ansia in gola: la sensazione di non potermi mai distrarre completamente, di dovermi guardare le spalle, di dover badare a me stessa.

Sono sola, sono ancora una ragazzina, non ci sono adulti con me.
Ho undici anni, forse dodici.
L'aria è pungente e la strada è tanta.
Nonostante il freddo, nel sogno sono sempre un po' sudata.

Quella strada l'ho riconosciuta quasi subito, appena sveglia.
Era quella che facevo per andare a trovare una delle mie migliori amiche.

È questo che facevamo, il pomeriggio.

L'altra mia migliore amica abitava da tutt'altra parte.
Da lei si arrivava con l'autobus.
L'autobus usciva dall'abitato, prendeva uno stradone lungo, lunghissimo, si inoltrava dove c'erano gli zingari, poche case e nient'altro.

Facevamo i compiti.

Spesso però parlavamo.
Sognavamo a occhi aperti.

La musica si affacciava timida da MTV, dai poster dei cantanti di Cioè, da qualche cassetta registrata dall'amica dell'amica.

Parlavamo di ragazzi.
Di quei quattro-cinque un po' più sviluppati che spiccavano nella massa informe avvoltolata in giubbotti e cartelle e che incontravamo a scuola, sull'autobus, o al bar. Poi c'erano i modelli dei giornaletti.
Per qualche attore si poteva anche perdere la testa. Aspettare trepidanti che uscisse il numero che conteneva il suo poster, bombardare il tizio dell' edicola di "non è ancora arrivato"??

Qualche volta, in quei pomeriggi, ho visto anche qualche film "proibito".
Non erano film proibiti davvero, di quelli vietati ai minori, poteva guardarli chiunque. Però erano i film in cui si vedeva o si capiva qualcosa sul sesso.
C'erano una o due scene di quelle che ci saremmo vergognate da morire a guardarle mentre stavamo a tavola coi nostri genitori.
Quando disgraziatamente passavano sullo schermo, in quel caso, guardavamo fisso nel piatto e facevamo finta che non riuscivamo a tagliare la carne.

Tra di noi non ci vergognavamo di quelle scene.
Chiedevamo "secondo te com'è?" e " tu questo lo faresti mai?" oppure "secondo te cosa si prova?"
In quei pochi momenti tutto era semplice e naturale.

Anche il telefono ci si vergognava a usarlo a casa coi genitori.
Il mio era in mezzo al corridoio e quando parlavi ti sentivano tutti.

Quindi qualche volta se ti piaceva qualcuno, in quei pomeriggi di compiti si poteva provare a telefonargli. In due era più facile.
Però bisognava avere un coraggio da leoni.
Niente messaggi, niente chat.
Così, secchi. Diretti.
"Come stai?", "Che fai?", "Ti ricordi di me?"
Roba che se mi chiedessero di fare adesso non farei mai, neanche sotto tortura.

Ma se avevi dodici o tredici anni a quei tempi non c'era altro modo, a meno che non trovavi una cabina telefonica che funzionava, e dovevi avere un sacco di soldi.
Ché magari, quando finalmente eri riuscita a mettere insieme due parole di senso compiuto, quando la tremarella ti era passata e nel caso in cui dall'altra parte del filo non ti avevano preso per una pazza ed eri riuscita a intavolare una conversazione normale, finivano i gettoni.

Passavano sempre troppo presto quei pomeriggi, intensi.
L'unica alternativa alla scuola, la strada e il nulla.

Quando guardavi l'orologio, tra un modello di Cioè e un amore segreto, cercavi in fretta di mandare giù qualche nozione di scienza. Leggevi con gli occhi stanchi "fotosintesi", "bisettrice", "evoluzione".

Poi diventava subito buio e non avevi mai finito tutti i compiti.
Citofonava tua madre o tuo padre e ti portavano a casa in macchina.

"Avete studiato?"

Tu te ne stavi sul sedile dietro, zitto.
Il senso di colpa che ti stringeva lo stomaco.
Un po' per i compiti, un po' per le scene di sesso.
Un disagio difficile da spiegare.
Una distanza che si era creata tutta in quelle poche ore in cui ti eri sentito un po' "grande".

Però era meglio così.
Di sera non si poteva proprio fare la strada da soli.

I pericoli li conoscevamo bene: le bande, la droga, gli zingari.
Di giorno gli passavamo vicino, a un soffio.
Eppure non li avevamo mai incontrati, o quasi mai.

Forse lo sapevano anche i grandi, che se ci avevano educati bene, che se ci avevano spiegato come si sta fuori dai guai, quei guai sarebbero rimasti sullo sfondo.
E di giorno ci lasciavano andare da soli.
E noi andavamo.

Non avevamo paura.
Ci guardavamo solo un po' le spalle, badavamo a noi stessi.
Quei pericoli c'erano, come fantasmi silenziosi.
Nella nostra testa lo sapevamo bene.
Ci camminavano accanto, forse, e noi andavamo per la nostra strada.

Come le rette parallele che studiavamo di pomeriggio, quando non c'erano cose più importanti da fare.
Non li toccavamo mai davvero e se qualche volta ci si avvicinavano troppo ci apparivano per quello che erano, come spiriti che si rivelano per un attimo e poi tornano nell'ombra.

E noi dimenticavamo in fretta: a quei pomeriggi non avremmo rinunciato mai.



Commenti