Quando eravamo ragazzini non eravamo né meglio né peggio dei ragazzini di adesso.
Forse c'era un insieme di cose, specialmente da noi in periferia, che ti faceva crescere con una specie di scorza, fatta di un qualcosa a metà tra l'ignoranza e l'ingenuità, del non conoscere tanti aspetti del mondo, e un po' invece di fin troppa realtà, che non si sentiva raccontare, ma più che altro si viveva.
Ti mancavano sempre un po' di pezzi e perciò a una certa età a molti veniva uno sguardo tra il disincantato e il perplesso.
Non so se fosse un bene o un male, ma era così.
Un esempio tra tanti: noi per spostarci prendevamo l'autobus.
Io tutto sommato sono stata fortunata.
Tra i quattordici e i ventiquattro anni la mia vita dipendeva totalmente e incondizionatamente dai mezzi pubblici, ma rispetto a tanti altri è durata poco.
Con il primo lavoro sono uscita dal tunnel e da quello che un po' sembrava un incubo, ma in fondo era anche un po' modo di vivere. Alla fine anche un po' un modo di essere.
È bastato pochissimo: una macchina da due soldi ed ero dall'altra parte.
Però c'era pure qualcosa che non mi tornava, non saprei dire, forse una punta di malinconia o la sensazione di tradire qualcuno o qualcosa: passavo e guardavo dal finestrino quelli tutti ammassati lì alla fermata, ad aspettare quegli autobus.
Pochi, a volte pochissimi e con una frequenza difficile da inserire in qualsiasi accettabile schema orario.
L'autobus passava, di solito, se tutto andava bene, verso quell'ora, se passava.
Se no pazienza: voleva dire che quel giorno non era passato.
Aspettavi il prossimo.
"A che ora passa?"
"Eh, c'è scritto 8,45, però non sempre passa davvero".
I motivi di tutta questa incertezza erano a noi perlopiù sconosciuti e tali sono rimasti.
Mi sentivo pure un po' in colpa.
Confesso che più di una volta avrei voluto fermarmi e caricare almeno due o tre. "Salite, oggi è festa, vi porto io!"
Sapevo bene quanto era estenuante stare lì.
È bastato pochissimo: una macchina da due soldi ed ero dall'altra parte.
Però c'era pure qualcosa che non mi tornava, non saprei dire, forse una punta di malinconia o la sensazione di tradire qualcuno o qualcosa: passavo e guardavo dal finestrino quelli tutti ammassati lì alla fermata, ad aspettare quegli autobus.
Pochi, a volte pochissimi e con una frequenza difficile da inserire in qualsiasi accettabile schema orario.
L'autobus passava, di solito, se tutto andava bene, verso quell'ora, se passava.
Se no pazienza: voleva dire che quel giorno non era passato.
Aspettavi il prossimo.
"A che ora passa?"
"Eh, c'è scritto 8,45, però non sempre passa davvero".
I motivi di tutta questa incertezza erano a noi perlopiù sconosciuti e tali sono rimasti.
Mi sentivo pure un po' in colpa.
Confesso che più di una volta avrei voluto fermarmi e caricare almeno due o tre. "Salite, oggi è festa, vi porto io!"
Sapevo bene quanto era estenuante stare lì.
Quelle attese senza nemmeno lo smartphone, senza un limite preciso di tempo, un po' senza pietà.
E non era come recitano quelli a cui piace dire che adesso siamo "troppo dipendenti dalla tecnologia".
In quei momenti avrei dato un rene per averla tra le mani, un po' di tecnologia, quando non c'era nemmeno il cellulare per avvisare a casa che l'autobus non era passato e dovevi rimanertene da solo ad aspettare per tre ore (vere) nel nulla.
Non si parlava con le persone che c'erano intorno, non si attaccava bottone, a meno che non si conoscevano già, a meno che non eri matto, tossico o non volevi rimorchiare. E se volevi rimorchiare a quelle fermate di autobus dovevi sembrare un tipo parecchio raccomandabile, se no te lo sognavi.
Solo chi non c'è passato può pensare che ci mettevamo a chiacchierare tra noi disperati.
Era una specie di codice non scritto.
Eravamo tutti stanchi, preoccupati o incazzati, di tutte le razze, di tutte le età.
Se aprivi bocca dovevi avere un motivo valido, doveva essere questione quasi di vita o di morte.
C'era un silenzio pesante, tutti zitti, tirati, un'agonia, tutti a guardare l'orizzonte di quegli stradoni deserti con gli occhi avidi, stretti come fessure.
Speravi di veder apparire quella macchiolina arancione.
Quella carretta con gli ammortizzatori malmessi e i soliti due-tre finestrini incastrati, che in quel momento significava tutto per te.
Significava un sacco di cose.
Significava non arrivare tardi, non farti chiudere dal bidello il portone in faccia, poi a una certa età significava non perdere la lezione o l'esame per cui ti eri preparato per mesi, poi non perdere il posto di lavoro. Per alcuni correre a casa dai bambini che stavano da soli e avevano fame.
Riposo, cibo, la fine di giornate iniziate alle cinque o alle sei di mattina.
Significava un sacco di cose.
Significava non arrivare tardi, non farti chiudere dal bidello il portone in faccia, poi a una certa età significava non perdere la lezione o l'esame per cui ti eri preparato per mesi, poi non perdere il posto di lavoro. Per alcuni correre a casa dai bambini che stavano da soli e avevano fame.
Riposo, cibo, la fine di giornate iniziate alle cinque o alle sei di mattina.
Certe volte, anche se non si chiacchierava, c'era comunque così tanto casino che non riuscivi nemmeno a leggere un libro, che poi leggere in piedi è anche una cosa difficile, ma se il libro ti piaceva tanto o se stavi andando a dare un esame importante per un po' ce la facevi.
Ci si guardava un po' intorno per scacciare la noia, il sonno e la paura di fare tardi.
Io leggevo i nomi delle fermate per passare il tempo, con lo sguardo percorrevo tutto il tragitto.
Quando arrivavo alla fermata del capolinea mi sentivo sempre un po' strana, il capolinea era sempre qualcosa di esotico nella mia testa: "Stazione Termini', "Piazza Barberini", "Piazza S. Giovanni".
Ecco, quello era "il centro", anche se poi di fatto nemmeno lo era, ma per noi sì perché era lontano, ai limiti dell'irragiungibile, dall'altra parte di una realtà che era periferia persino della periferia.
Chissà com'era davvero? Chissà come viveva lì la gente?
Non è che non ci fossi mai stata.
Ma forse a quel tempo misuravamo un po' l'importanza di tutto con le fermate dell'autobus. Era un po' la nostra valuta.
In fondo ogni fermata raggiunta costava fatica e dolore: attesa, sudore, freddo, piedi pestati, culi palpati, spintoni, gomitate, tenersi in equilibrio aggrappati con tutte le forze, aria quasi irrespirabile.
Non importava poi tanto dove si trovasse davvero il centro ma se ti eri fatto solo due fermate stavi ancora da noi, non era cambiato niente.
Quattro o cinque già valeva di più, già valeva la pena passarci un pomeriggio.
Se arrivavi fino al capolinea invece era un po' come un viaggio, un'avventura, anche tu ti sentivi un po' eroe.
Quando tornavi avevi per forza qualcosa da raccontare. Eri stato in un' altra dimensione, un altro mondo e valeva un sacco perché erano più di dieci fermate.
Alcuni sabati ci si organizzava in gruppo e si andava a via Sannio, a comprare i Levi's usati, perché i genitori non ci davano i soldi per comprarli nuovi.
Gli autobus passavano ancora meno del solito ma l'attesa non pesava tanto perché si stava tutti insieme. Poi quando salivamo ci sedevamo tutti dietro, sui sedili in fondo: quello voleva dire essere fighi.
Era diverso da quando prendevi "l'auto" per andare a scuola.
Eravamo in pochi a sapere cosa c'era invece a quegli altri capolinea, quelli che stavano dalla parte opposta, con quei nomi un po' misteriosi e perlopiù sconosciuti al mondo "vero", quello che per noi cominciava da Centocelle in poi.
Quei nomi tra il naturistico e il commemorativo di eventi o persone rimasti un po' avvolti dall'ignoto.
"Grotte Celoni", "Pratolungo", "Pantano", "Colle Mattìa".
Come dovevano suonare strani a chi li leggeva seduto su una panchina a "Piazza S Giovanni".
Quella panchina che noi ci immaginavamo sempre al sole, sotto uno di quegli alberi con le foglie eleganti, piccole piccole, che cadono volteggiando nel vento, di fronte a chissà quali bei negozi.
Anche perché in fondo era un po' vero che certi negozi, per noi che avevamo solo l'alimentari e la cartolibreria che vendeva pure le bomboniere per la prima comunione, stavano soltanto lì.
Anche perché in fondo era un po' vero che certi negozi, per noi che avevamo solo l'alimentari e la cartolibreria che vendeva pure le bomboniere per la prima comunione, stavano soltanto lì.
Noi a quei capolinea strani, in quella parte dimenticata del mondo, ci scendevamo, anche quando pioveva e il più delle volte eravamo senza ombrello.
Di sicuro c'era tanto asfalto e c'erano i palazzi, oppure a volte davvero non c'era nulla.
Campi, e vie lunghe a volte sterrate, senza neanche il nome.
In un certo senso, per noi che quel giorno ci eravamo avventurati "nel mondo" c'era anche tutto.
Quando scendevamo però era sempre tardi, andavamo di corsa verso casa e per qualche ora agli autobus non volevamo pensarci più.
Volevamo un po' vivere anche noi, facendo finta che magari il giorno dopo ci saremmo svegliati a "Stazione Termini" o a "Piazza Barberini", dove c'è sempre il sole e la gente è vestita elegante, o almeno a una di quelle fermate dove per andare al lavoro basta attraversare la strada.
Così almeno avremmo potuto dormire un'ora in più.
Di sicuro c'era tanto asfalto e c'erano i palazzi, oppure a volte davvero non c'era nulla.
Campi, e vie lunghe a volte sterrate, senza neanche il nome.
In un certo senso, per noi che quel giorno ci eravamo avventurati "nel mondo" c'era anche tutto.
Quando scendevamo però era sempre tardi, andavamo di corsa verso casa e per qualche ora agli autobus non volevamo pensarci più.
Volevamo un po' vivere anche noi, facendo finta che magari il giorno dopo ci saremmo svegliati a "Stazione Termini" o a "Piazza Barberini", dove c'è sempre il sole e la gente è vestita elegante, o almeno a una di quelle fermate dove per andare al lavoro basta attraversare la strada.
Così almeno avremmo potuto dormire un'ora in più.
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