A volte la vita sembra difficilissima, composta da una serie di problemi infiniti, incastrati l'uno dentro l'altro come fossero una matrioska, da quando apri gli occhi a quando li richiudi e persino mentre dormi.
A volte ti domandi veramente come farai a sopravvivere.
Ma poi ti ricordi di essere sopravvissuto agli anni della scuola.
Eh sì, perché bisogna ammetterlo: quando siamo andati a scuola noi (non più proprio ventenni e forse neanche trentenni) non era come adesso.
Non c'era tutto questo dialogo tra genitori e insegnanti, i genitori non erano come le mamme e i papà di oggi che non perdono di vista i loro cuccioli nemmeno per un minuto, non c'erano i cellulari per segnalare il minimo problema, non c'erano maestre che telefonavano a casa con urgenza perchè a Tizio o a Caio usciva il sangue dal naso.
Ai nostri tempi i genitori, ignari di tanti particolari, e con due belle fettone di prosciutto sugli occhi, che forse non avevano nemmeno tanta voglia di sollevare, ti buttavano nella mischia.
E poi, senza girarsi indietro troppe volte a guardare, se ne andavano di corsa a godersi quel pezzetto di ritrovata libertà.
E non è che ti buttavano nella mischia con lo smartphone, con i 50 euro nello zaino per la merenda, il tiraggio appena fatto dal parrucchiere, la maglietta di marca e sette numeri di telefono da chiamare in caso di emergenza.
No.
Ti buttavano col grembiule di una taglia più grossa del dovuto, con l'iniziale cucita (male) sopra col filo da rammendo.
Con le scarpe da ginnastica color verde evidenziatore del mercatino di quartiere, il calzettone bianco calato, i capelli tagliati il mese prima e pettinati (se c'era tempo) alla rinfusa e un pacchetto di crackers legnosi e secchi come mattoncini di Lego.
Ai più fortunati allegavano il Billy, bevanda al vaghissimo retrogusto di arancia che provocava gastriti istantanee. Poi c'erano pure i mezzi-ricchi/fighi, che portavano la pizzetta con la mortadella o i panini col salame, ma era roba da fortunatissimi, materiale per una serie di ricatti e scambi durante la ricreazione ai limiti dell'organizzazione mafiosa.
Insomma eravamo, in sostanza, una bella manica di sfigati, di bestioline da macello.
E qui la cattiveria si scatenava.
Perchè naturalmente, quelli con cui la sorte si era accanita un po' di meno e che si ritenevano un po' meno sfigati, pensavano bene di regalare agli sfigatissimi anche la sfiga dei loro simpatici soprusi.
E via col mostruoso dispiegarsi delle più svariate angherie. Perché, si sa, quando sei piccolo la fantasia non conosce limiti.
Fatico ancora a dimenticare una bambinona dai capelli neri di nome Nadia più alta di me di almeno un palmo, che alla tenera età di cinque anni, sotto minaccia, si faceva consegnare una buona metà dell'unica Girella concessami giornalmente da mia madre (perché troppe merendine facevano male).
Posso assicurare che "Ti tiro i capelli" e "ti prendo a calci il cestino di Snoopy" a cinque anni somigliano moltissimo a "So dove abiti" o "Non vuoi che capiti qualcosa di brutto alla tua famiglia, vero?"
Quando finalmente trovai il coraggio e denunciai il fatto, la risposta di mia madre fu: "E tu non glie la dare e menagli!".
Feci merenda per tutto l'anno con mezza Girella, e tuttavia non morii di fame.
Alle elementari, con lo sviluppo della creatività e dell'intelligenza, ci ingegnammo in trovate un tantino più complesse.
Ricordo una certa quantità di alimenti e bevande a piacere versati sui capelli miei e di altre bambine (i capelli lunghi erano tra i favoriti) tra cui un paio di gomme da masticare e un intero thermos di succo di arancia, seguiti dall'immancabile cazziatone di mia madre al rientro a casa.
Un'altra trovata consisteva nell'organizzare "simpatiche" cacce al tesoro con cappotti, sciarpe, cappelli, scarpe da ginnastica o quant'altro. Eravamo abbastanza democratici nella scelta delle vittime: prima o poi toccava a tutti. Tranne naturalmente agli intoccabili (quelli troppo grossi o bravi a menare o troppo fighi).
Poi venne l'era dei cartoccetti inzuppati, lanciati con cerbottane improvvisate con la penna Bic rispettivamente negli occhi, capelli, vestiti dei malcapitati, prima, dopo e durante le lezioni.
Passiamo poi agli anni della scuola media, in cui le cose certo non migliorarono.
L'elemento più caratteristico di quest'età era costituito da una vasta gamma di epiteti di vario genere, conditi spesso da metafore di una certa arguzia, spesso proposti nella forma più evoluta di canzoni o cantilene, che ti accompagnavano quando facevi merenda, in gita, al bagno, mentre eri chiamato alla cattedra (insomma ogni volta in cui, disgraziatamente, qualcuno si accorgeva della tua presenza).
Giravano inoltre pesanti insulti sul fatto che non eri ancora ben sviluppato e che c'erano ancora poche cose in te che ricordavano le fattezze di una donna/uomo.
Era anche molto di moda cimentarsi in minacce di pesanti molestie sessuali, conosciute per lo più per sentito dire, di cui spesso (ma come eravamo ingenui e tenerelli noi alle medie?) non era certo del vero significato né il "molestatore", né chi le riceveva.
Proprio alle medie però arrivò il giorno della riscossa.
Il giorno della vittoria dei deboli.
Un giorno memorabile per i tartassati di tutti i tempi.
Oltre alle normali angherie quotidiane io e la mia (tuttora) migliore amica dovevamo confrontarci con la quotidiana paura di andare in bagno.
C'erano infatti due ragazze grandi e parecchio ripetenti che amavano particolarmente trascorrere la ricreazione appostate davanti ai cessi, giusto per sfottere un po', per minacciare un tantino, per rendere un tormento anche il semplice gesto di fare la pipì.
Beh... nessuno sa cosa accadde di preciso.
Fu l'esasperazione? Un bisogno più urgente del solito?
Tant'è che in quel glorioso giorno la mia amica sbroccò.
Prese a pugni sulle tette la più grossa delle due bullette e ci garantì la libertà dall'oppressione fino alla fine della terza media.
Una parolina la spenderei anche sul fatto che mia madre, con una parte di sé, non voleva proprio vedere che andavo a scuola praticamente nel Bronx e si ostinava a farmi vestire come un' educanda di un collegio svizzero, regalando spunti infiniti ai miei torturatori.
Per lo più mi infliggeva gonne scozzesi, ballerine e giacchette di velluto con lo stemma.
Fantastiche per le ragazzine di oggi, un po' fighette e un po' seguaci di Hermione Granger.
Ma terribili per noi, che il branco esigeva che vestissimo tutti come piccoli paninari o piccole Madonne col ciuffo laccato e i fuseaux.
C'è anche da dire che i mal di pancia o di testa, le febbri, i denti caduti, i sangui dal naso, le vomitate nel corridoio mentre ti precipitavi verso il bagno, gli squarci di mezzo metro dalla coscia fino alla caviglia, si risolvevano al massimo con un occhio di riguardo della maestra/prof., che ti permetteva di rimanertene in silenzio al tuo posto a "riposarti" mentre gli altri, che proseguivano le lezioni, ti lanciavano ogni tanto un'occhiatina, che tu ti godevi con aria da eroe.
Oppure con un "vai dalla bidella", la quale, molto infastidita dal fatto di dover abbandonare per cinque minuti la Settimana Enigmistica, tutt'al più ti elargiva un cerotto o un consiglio sul fatto che dovevi "stare più attento".
I genitori infatti lavoravano e non potevano (o giustamente non volevano) stare a correre appresso a te che rompevi.
Insomma, se non era niente di gravissimo, te la tenevi per tutte le 4 o 5 ore e pure zitto e magari poi ti facevi pure il pezzo di strada a piedi, o peggio con l'autobus.
Ecco. Lì era sfiga vera.
Perchè diciamo che arrivare psico-fisicamente sano e salvo a scuola e magari pure tornare a casa era già di per sé un'impresa non da poco.
Quelli che "la mamma lo porta in macchina" erano davvero pochi e considerati una specie di principini.
Se andavi a piedi, a parte le intemperie, ti beccavi tutt'al più qualche strapazzata, qualche presa in giro, qualche cartella lanciata da un simpaticone dall'altra parte della staccionata in un campo di girasoli, tutto sommato insomma, per noi bimbetti cazzuti degli anni 80'/90, tutte cose più che sopportabili.
Ma parliamo invece di quei begli autobus di periferia, che ne passava uno ogni ora/ora e mezza.
Gonfi come panettoni di ragazzini malefici e pronti a sfoderare tutte le loro malignità.
Attesi per ore sotto il sole cocente o sotto la neve, giorno dopo giorno, cercando in piedi, con una fame che ti divorava (perché a quell'età, non si sa perché, avevi sempre fame) di ripassare la lezione, schivando le palle di fango e le botte con la cartella, cercando di ignorare le umilianti cantilene e tutto il repertorio degli appellativi.
E poi magari, per dare una botta di colore e non farsi mancare niente, lì bello incastrato tra tutti i ragazzini, si infilava pure il maniaco vero, che non è che doveva andare a scuola (perchè era sulla cinquantina) ma era sempre puntualissimo e una palpatina non la negava a nessuno.
Insomma, un inferno vero.
Io a ripensarci, a volte mi sento un po' eroe e penso che se ho superato tutto questo, facendomi pure una risata ogni tanto, facendomi pure degli amici, divertendomi pure e alzandomi ogni mattina come se fosse tutto normale, allora posso affrontare qualunque cosa.
È vero, noi non portavamo i coltelli a scuola (lo facevano in pochi ed erano "cattivi" veri), in pochissimi portavano la droga, non ci filmavamo col telefonino per poi ricattarci e metterci su internet, non avevamo tante famiglie sfasciate alle spalle, non avevamo gli attacchi di panico e non andavamo dallo psicologo.
Però devo dire che il naso ce lo pulivamo da soli e se la maestra o la prof. ci dicevano che eravamo delle teste vuote e non studiavamo, stavamo attenti a non dirlo a casa, se no prendevamo pure il resto. E non c'era nessuno che correva a scuola per dirgliene quattro e per regolare i conti.
Ci insultavamo un po' tutti, così, per par condicio.
E forse in fondo tutti quei "cretino", "figlio di", "cicciabomba", "stecchino", "quattr'occhi", "testa di", che volavano di qua e di là senza che nessuno dei grandi facesse granché, ci aiutavano a prenderci un po' meno sul serio e a capire da subito che la vita non è tutta miele e zucchero filato.
A volte ti domandi veramente come farai a sopravvivere.
Ma poi ti ricordi di essere sopravvissuto agli anni della scuola.
Eh sì, perché bisogna ammetterlo: quando siamo andati a scuola noi (non più proprio ventenni e forse neanche trentenni) non era come adesso.
Non c'era tutto questo dialogo tra genitori e insegnanti, i genitori non erano come le mamme e i papà di oggi che non perdono di vista i loro cuccioli nemmeno per un minuto, non c'erano i cellulari per segnalare il minimo problema, non c'erano maestre che telefonavano a casa con urgenza perchè a Tizio o a Caio usciva il sangue dal naso.
Ai nostri tempi i genitori, ignari di tanti particolari, e con due belle fettone di prosciutto sugli occhi, che forse non avevano nemmeno tanta voglia di sollevare, ti buttavano nella mischia.
E poi, senza girarsi indietro troppe volte a guardare, se ne andavano di corsa a godersi quel pezzetto di ritrovata libertà.
E non è che ti buttavano nella mischia con lo smartphone, con i 50 euro nello zaino per la merenda, il tiraggio appena fatto dal parrucchiere, la maglietta di marca e sette numeri di telefono da chiamare in caso di emergenza.
No.
Ti buttavano col grembiule di una taglia più grossa del dovuto, con l'iniziale cucita (male) sopra col filo da rammendo.
Con le scarpe da ginnastica color verde evidenziatore del mercatino di quartiere, il calzettone bianco calato, i capelli tagliati il mese prima e pettinati (se c'era tempo) alla rinfusa e un pacchetto di crackers legnosi e secchi come mattoncini di Lego.
Ai più fortunati allegavano il Billy, bevanda al vaghissimo retrogusto di arancia che provocava gastriti istantanee. Poi c'erano pure i mezzi-ricchi/fighi, che portavano la pizzetta con la mortadella o i panini col salame, ma era roba da fortunatissimi, materiale per una serie di ricatti e scambi durante la ricreazione ai limiti dell'organizzazione mafiosa.
Insomma eravamo, in sostanza, una bella manica di sfigati, di bestioline da macello.
E qui la cattiveria si scatenava.
Perchè naturalmente, quelli con cui la sorte si era accanita un po' di meno e che si ritenevano un po' meno sfigati, pensavano bene di regalare agli sfigatissimi anche la sfiga dei loro simpatici soprusi.
E via col mostruoso dispiegarsi delle più svariate angherie. Perché, si sa, quando sei piccolo la fantasia non conosce limiti.
Fatico ancora a dimenticare una bambinona dai capelli neri di nome Nadia più alta di me di almeno un palmo, che alla tenera età di cinque anni, sotto minaccia, si faceva consegnare una buona metà dell'unica Girella concessami giornalmente da mia madre (perché troppe merendine facevano male).
Posso assicurare che "Ti tiro i capelli" e "ti prendo a calci il cestino di Snoopy" a cinque anni somigliano moltissimo a "So dove abiti" o "Non vuoi che capiti qualcosa di brutto alla tua famiglia, vero?"
Quando finalmente trovai il coraggio e denunciai il fatto, la risposta di mia madre fu: "E tu non glie la dare e menagli!".
Feci merenda per tutto l'anno con mezza Girella, e tuttavia non morii di fame.
Alle elementari, con lo sviluppo della creatività e dell'intelligenza, ci ingegnammo in trovate un tantino più complesse.
Ricordo una certa quantità di alimenti e bevande a piacere versati sui capelli miei e di altre bambine (i capelli lunghi erano tra i favoriti) tra cui un paio di gomme da masticare e un intero thermos di succo di arancia, seguiti dall'immancabile cazziatone di mia madre al rientro a casa.
Un'altra trovata consisteva nell'organizzare "simpatiche" cacce al tesoro con cappotti, sciarpe, cappelli, scarpe da ginnastica o quant'altro. Eravamo abbastanza democratici nella scelta delle vittime: prima o poi toccava a tutti. Tranne naturalmente agli intoccabili (quelli troppo grossi o bravi a menare o troppo fighi).
Poi venne l'era dei cartoccetti inzuppati, lanciati con cerbottane improvvisate con la penna Bic rispettivamente negli occhi, capelli, vestiti dei malcapitati, prima, dopo e durante le lezioni.
Passiamo poi agli anni della scuola media, in cui le cose certo non migliorarono.
L'elemento più caratteristico di quest'età era costituito da una vasta gamma di epiteti di vario genere, conditi spesso da metafore di una certa arguzia, spesso proposti nella forma più evoluta di canzoni o cantilene, che ti accompagnavano quando facevi merenda, in gita, al bagno, mentre eri chiamato alla cattedra (insomma ogni volta in cui, disgraziatamente, qualcuno si accorgeva della tua presenza).
Giravano inoltre pesanti insulti sul fatto che non eri ancora ben sviluppato e che c'erano ancora poche cose in te che ricordavano le fattezze di una donna/uomo.
Era anche molto di moda cimentarsi in minacce di pesanti molestie sessuali, conosciute per lo più per sentito dire, di cui spesso (ma come eravamo ingenui e tenerelli noi alle medie?) non era certo del vero significato né il "molestatore", né chi le riceveva.
Proprio alle medie però arrivò il giorno della riscossa.
Il giorno della vittoria dei deboli.
Un giorno memorabile per i tartassati di tutti i tempi.
Oltre alle normali angherie quotidiane io e la mia (tuttora) migliore amica dovevamo confrontarci con la quotidiana paura di andare in bagno.
C'erano infatti due ragazze grandi e parecchio ripetenti che amavano particolarmente trascorrere la ricreazione appostate davanti ai cessi, giusto per sfottere un po', per minacciare un tantino, per rendere un tormento anche il semplice gesto di fare la pipì.
Beh... nessuno sa cosa accadde di preciso.
Fu l'esasperazione? Un bisogno più urgente del solito?
Tant'è che in quel glorioso giorno la mia amica sbroccò.
Prese a pugni sulle tette la più grossa delle due bullette e ci garantì la libertà dall'oppressione fino alla fine della terza media.
Una parolina la spenderei anche sul fatto che mia madre, con una parte di sé, non voleva proprio vedere che andavo a scuola praticamente nel Bronx e si ostinava a farmi vestire come un' educanda di un collegio svizzero, regalando spunti infiniti ai miei torturatori.
Per lo più mi infliggeva gonne scozzesi, ballerine e giacchette di velluto con lo stemma.
Fantastiche per le ragazzine di oggi, un po' fighette e un po' seguaci di Hermione Granger.
Ma terribili per noi, che il branco esigeva che vestissimo tutti come piccoli paninari o piccole Madonne col ciuffo laccato e i fuseaux.
C'è anche da dire che i mal di pancia o di testa, le febbri, i denti caduti, i sangui dal naso, le vomitate nel corridoio mentre ti precipitavi verso il bagno, gli squarci di mezzo metro dalla coscia fino alla caviglia, si risolvevano al massimo con un occhio di riguardo della maestra/prof., che ti permetteva di rimanertene in silenzio al tuo posto a "riposarti" mentre gli altri, che proseguivano le lezioni, ti lanciavano ogni tanto un'occhiatina, che tu ti godevi con aria da eroe.
Oppure con un "vai dalla bidella", la quale, molto infastidita dal fatto di dover abbandonare per cinque minuti la Settimana Enigmistica, tutt'al più ti elargiva un cerotto o un consiglio sul fatto che dovevi "stare più attento".
I genitori infatti lavoravano e non potevano (o giustamente non volevano) stare a correre appresso a te che rompevi.
Insomma, se non era niente di gravissimo, te la tenevi per tutte le 4 o 5 ore e pure zitto e magari poi ti facevi pure il pezzo di strada a piedi, o peggio con l'autobus.
Ecco. Lì era sfiga vera.
Perchè diciamo che arrivare psico-fisicamente sano e salvo a scuola e magari pure tornare a casa era già di per sé un'impresa non da poco.
Quelli che "la mamma lo porta in macchina" erano davvero pochi e considerati una specie di principini.
Se andavi a piedi, a parte le intemperie, ti beccavi tutt'al più qualche strapazzata, qualche presa in giro, qualche cartella lanciata da un simpaticone dall'altra parte della staccionata in un campo di girasoli, tutto sommato insomma, per noi bimbetti cazzuti degli anni 80'/90, tutte cose più che sopportabili.
Ma parliamo invece di quei begli autobus di periferia, che ne passava uno ogni ora/ora e mezza.
Gonfi come panettoni di ragazzini malefici e pronti a sfoderare tutte le loro malignità.
Attesi per ore sotto il sole cocente o sotto la neve, giorno dopo giorno, cercando in piedi, con una fame che ti divorava (perché a quell'età, non si sa perché, avevi sempre fame) di ripassare la lezione, schivando le palle di fango e le botte con la cartella, cercando di ignorare le umilianti cantilene e tutto il repertorio degli appellativi.
E poi magari, per dare una botta di colore e non farsi mancare niente, lì bello incastrato tra tutti i ragazzini, si infilava pure il maniaco vero, che non è che doveva andare a scuola (perchè era sulla cinquantina) ma era sempre puntualissimo e una palpatina non la negava a nessuno.
Insomma, un inferno vero.
Io a ripensarci, a volte mi sento un po' eroe e penso che se ho superato tutto questo, facendomi pure una risata ogni tanto, facendomi pure degli amici, divertendomi pure e alzandomi ogni mattina come se fosse tutto normale, allora posso affrontare qualunque cosa.
È vero, noi non portavamo i coltelli a scuola (lo facevano in pochi ed erano "cattivi" veri), in pochissimi portavano la droga, non ci filmavamo col telefonino per poi ricattarci e metterci su internet, non avevamo tante famiglie sfasciate alle spalle, non avevamo gli attacchi di panico e non andavamo dallo psicologo.
Però devo dire che il naso ce lo pulivamo da soli e se la maestra o la prof. ci dicevano che eravamo delle teste vuote e non studiavamo, stavamo attenti a non dirlo a casa, se no prendevamo pure il resto. E non c'era nessuno che correva a scuola per dirgliene quattro e per regolare i conti.
Ci insultavamo un po' tutti, così, per par condicio.
E forse in fondo tutti quei "cretino", "figlio di", "cicciabomba", "stecchino", "quattr'occhi", "testa di", che volavano di qua e di là senza che nessuno dei grandi facesse granché, ci aiutavano a prenderci un po' meno sul serio e a capire da subito che la vita non è tutta miele e zucchero filato.
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