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Ho visto "Jesus Camp"



Sì, l'ho fatto, e lo dico come una specie di confessione, come se avessi guardato qualcosa di osceno, come quando ammetti davanti a tutti di esserti messo le dita del naso o di esserti appena guardato qualcosa su youporn.

Ho visto "Jesus Camp". Film documentario sul mondo evangelico pentecostale girato nel 2006.
La notte stessa ho avuto gli incubi.
Mi sentivo male. Una sensazione di disagio, di aver visto qualcosa di davvero brutto.
Poi ho riflettutto sul perché provavo quella sensazione e la risposta è stata semplicissima: ho visto davvero qualcosa di molto brutto.

Nella realtà evangelica ci sono cresciuta. Da tante cose, crescendo, ho preso le distanze.
Da altre no, da poche no, da pochissime, anzi, forse da una sola: il desiderio di vivere una ricerca spirituale personale, profonda, non banale e libera da luoghi comuni.
Tutto il resto per quanto mi riguarda può finire tranquillamente nella spazzatura.

Compresi questi fenomeni da baraccone.
Fenomeni in cui più di una volta, in un'occasione o nell'altra qualcuno ha provato a coinvolgermi, da bambina, da adolescente, poi da più grande.

Forse essere sempre appartenuta ai gruppi dei più sfigatelli mi ha aiutata a non cascarci, a diffidare sempre un po' di realtà che si presentano come dorate e pompose, a provare poca fiducia verso chi si presentava come "fantastico", "sensazionale" o "imbattibile".

Una cosa però mi ha colpito: c'è stato un momento in cui queste stranezze un po' di presa su di me l'hanno avuta, una tentazione allettante e irrazionale, come un canto di sirene.
È stato quando sono stata fragile, quando sono stata più debole che mai. Quando sentivo di aver smarrito la strada, di aver perso tutto, in un certo senso.
Allora certi slogan, certe garanzie di successo, un po' come caramelle appetitose, mi hanno attirato, almeno un po'.
Sì, come accade nelle sette. E certe realtà sono settarie per natura.

Vieni e vedrai.
Prega e guarirai.
Fai e otterrai.
Partecipa e migliorerai.

Che per certi versi potrebbe anche essere, ma poi c'era il discorso della quantità.

Quantità diverse di ritualità a seconda del problema.
Se è più grande bisogna partecipare di più, fare di più, pregare di più. Più intensamente, più forte.
Allora non osavo ammetterlo, altrimenti sarebbe crollato tutto il castello, ma più di una domanda, da qualche parte dentro di me, bussava.
Dio aveva forse qualche problema di sordità, o semplicemente non si sarebbe scomodato se per il problema x si pregava, per dire, 10 volte invece di 15?
C'era, da qualche parte in cielo, un registro presenze, per segnare quante volte uno frequentasse incontri, riunioni o conferenze?
Oppure partecipare ti conferiva direttamente qualche forma di superpotere, piano piano trasformava la tua realtà, annullava i problemi?
E cosa succedeva a quelli che, per problemi di lavoro ad esempio, e a parità di problema, potevano partecipare a un numero inferiore di incontri, o pregare un numero inferiore di volte?

Quante cose c'erano dentro di me che non volevo vedere, che non ero pronta a capire, quanti pesi sulle spalle, quante parti di me che non conoscevo.
Era più facile credere che sarebbe bastato partecipare a dei riti o autoconvincermi con uno slogan, piuttosto che intraprendere quella strada.
La strada della vera guarigione, non quella di qualche santone che grida da un pulpito, ma quella che passa per se stessi, per l'umiltà, per la consapevolezza e per tanto, tanto amore, tanto perdono, per abbandonare le strade della rigidità e dell'intransigenza, per la comprensione.
Di sè, degli altri, del fatto che siamo tutti umani e fragili.
Quella che richiede tanto, tanto tempo, di solito una vita intera.

Ma veniamo al film.

Bambini a cui è stata rubata, in sintesi, l'infanzia.

Bambini che gridano, vestiti da soldati, a cui viene messa sulle spalle la convinzione che devono vincere una guerra santa e cambiare il mondo.

Bambine che si atteggiano a piccole super star, vestite da barbie/ballerine, con la convinzione di essere "danzatrici per cristo". (A me sono sembrate le solite bambine, uguali a me alla loro età, che vogliono mettersi un tutù e farsi ammirare).
Una in particolare, vestita da proto-adolescente con t-shirt alla moda, con sopra scritto: "mio padre è nell'esercito".
Poi la camera si sposta e inquadra il "santino" del padre, sotto forma di foto in primo piano poggiata sul comò. Cristianissimo e in divisa da soldato.
Una guerra nella guerra, insomma.

Bambine che vanno al bowling con la famiglia e invece di giocare, come sarebbe sano che facessero, vanno a "testimoniare" la loro fede in giro per i tavoli, rivolgendosi ad adulti che neanche conoscono e senza che nessuno li sorvegli, con piglio saccente.

Bambini che si atteggiano (all'età di 10 anni) a grandi predicatori.
Invece di passare il pomeriggio a catturare lucertole, 'sto bambino lo passa a preparare un sermone che reciterà poi di sera, con fare da attore consumato, invitando i suoi coetanei e gli adulti a pentirsi di non so cosa e profetizzando il ritorno di cristo.

Bambini che non vanno a scuola ma studiano a casa con un ibrido di saccentissima e rigidissima mamma-insegnante che non si sa bene che formazione abbia.
Perché?
Perché a scuola si insegna "il male".
In casa invece, vengono educati a prendere in giro quasi crudelmente, tra grasse risate, la teoria dell'evoluzione perché "la scienza è del diavolo" e "non conosce le vere risposte".

E gli adulti responsabili di tutto questo?

La responsabile principale, un donnone afflitto da un evidente sovrappeso (della serie: la perfezione e la disciplina vanno imposte, ma solo agli altri) dice che "DOBBIAMO addestrare i "nostri" bambini tanto come fanno i fondamentalisti islamici che addestrano bambini-soldato" e quando giustamente le viene chiesto il perché risponde: "mi scusi eh, ma perché noi abbiamo la verità!"

In una delle prime serate di campeggio, dopo una prima parte dedicata a canzoni e balletti degni della migliore animazione da centro estivo, invita poi i bambini (bambini) a purificare la loro anima, a pentirsi  per tutte le volte in cui a scuola (per chi ci va), o con gli amichetti "sanno di aver detto parole che non dovevano dire o di essersi comportati male" il tutto con uno sguardo serio e accusatore, come se stesse parlando con famosi boss della mafia.
Per dare più forza alle sue parole li introduce poi ad una sorta di rito purificatore, invitandoli a porgerle le mani che lei laverà versandoci sopra l'acqua che sgorga da bottigliette di plastica da mezzo litro.

Un secondo responsabile rimprovera un gruppo di maschietti (tra loro c'è anche il bambino-predicatore).
Perché?
Perché di sera, durante un temporale, sui loro lettini a castello, lontano da palchi e riflettori, per una volta si comportano come bambini normali: giocano a fare facce brutte e versi da mostri alla luce delle torce.

Il responsabile li rimprovera perché "anche durante i giochi è bene che pensino a cose sante, pure e belle e non a cose brutte".

Un altro mette in mano a bambini e bambine tra i 5 e i 10 anni dei piccoli feti di plastica e poi li invita a piangere, a disperarsi e a soffrire perché molte donne, nell'anno passato, in America, hanno abortito.

Come se un bambino di 5 anni sapesse cosa vuol dire e potesse conoscere certe realtà della vita, o riflettere sulle motivazioni o i contesti che possono averle generate.

Come se fosse sano o anche solo lontanamente naturale parlare a bambini di 5 anni di sesso, di nascite, di feti, di maternità, di aborto.

Mettete in mano ad un bambino qualcosa di piccolo e morto, ditegli che deve soffrire e lui soffrirà.
Ma fidatevi, non si sarà formato un'opinione.
Gli avrete solo fatto una violenza.

In ultimo viene portato in mezzo alla sala un cartonato del presidente Bush a grandezza naturale.
"Bambini, salutate il presidente Bush, e adesso pregate per lui. Così state cambiando la nazione. Così lui si comporterà come Dio vuole."

Chi asciugherà le lacrime di quei bambini, quando vedranno che il presidente che hanno salutato e verso il quale hanno steso la manina con tanta convinzione ha ordinato di lanciare bombe contro bambini come loro?
Ah... ma quelli non sono bambini americani.
Sono bambini islamici. Sono del regno del male.
Allora tutto ok.

Tutto questo fa schifo.

Ma non è tuttavia l'immagine che mi è rimasta più impressa.

C'è  una scena del film che non dimenticherò mai.
La prima che mi viene in mente ogni volta che ci penso.

Prima del famoso "camp" c'è un incontro per bambini fatto apposta per pubblicizzarlo, una sorta di reclutamento.

Ci sono tanti bambini piccoli in braccio alle mamme, fiduciosi, appoggiati sui loro petti.

La predicatrice cicciona grida: "quanti di voi credono che Dio può fare tutto?"

Alcuni più grandi, già "inquadrati" nei ranghi, alzano prontamente la mano, contenti di farla felice e di essere bravi.

I bambini più piccoli la guardano con l'occhio spento, straniti, si annoiano, non capiscono un'acca di quanto sta dicendo.
Ma le mamme, pronte, intervengono.

Sia mai che l'anima dei loro piccoli si perda.
Sia mai, peggio ancora, che non siano all'altezza della situazione.
Sia mai che il loro figlio non diventi un pastore.

Afferrano la mano del loro pargolo, decise, e la spingono su, su, in alto, verso il cielo, più in alto che possono, bene in vista.

I bambini si lasciano fare, lo sguardo sempre più spento, come bambole di pezza.

L'altra faccia del cristianesimo, l'altra faccia dell'America (quella che ha avuto un peso enorme alle ultime elezioni), fate un po' voi e, nel frattempo, buona visione.

P.S. attenzione: ci vuole fegato.

https://vimeo.com/186081009



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